killing floor

Ma sono figure più che mai votate agli incontri che si riempiono di pensieri – quegli incontri su itinerari imprecisi e frammentari, nei momenti vuoti in cui niente ci attira, e dove ci si ritrova con altri in un tempo sospeso.
(Gianni Celati, 2008)

No face, no name, no number.
(the Traffic, 1967)

Quel che vorrei provare a realizzare nello spazio di via Parma 31 riguarda innanzitutto una fase particolare nel percorso di un’opera, quando uscendo dallo studio perde la sua privatezza e diventa pubblica. È ciò che accade quando un’opera viene allestita in uno spazio altro dallo studio, uno spazio, appunto, pubblico: galleria, museo, ecc.
In questa fase di passaggio subentra (può subentrare) una nuova figura, che si può definire in vari modi, gallerista (inteso in un certo senso), curatore.. A me piace piuttosto utilizzare un termine, mutuato dalla letteratura, che mi sembra più preciso e appropriato, l’editor, colui che prende in mano l’opera ancora calda, vi si immerge per capirla, dopodiché propone all’autore certe modifiche, necessarie, a suo parere, per far sì che essa venga allestita – e proposta al pubblico – nella forma migliore. Per riuscirci deve prima capire e poi agire nel modo giusto, possibilmente senza sovrapporre alcunché di suo, soprattutto niente che stravolga il senso voluto dall’autore, ma semmai lo aiuti ad esprimerlo meglio.
In anni recenti ho riflettuto molto su cosa significhi allestire una mostra, soprattutto una mostra collettiva, quando si tratta di creare un nuovo organismo formato da parti diverse che si devono mettere ognuna nella posizione migliore perché tutto l’organismo, sia pure temporaneamente, possa funzionare, innescando una situazione di energia e mantenendola attiva. Le mie esperienze all'interno di e/static mi hanno permesso di sviluppare un'attitudine verso questo particolare aspetto della pratica artistica, che mi pare interessante soprattutto perché può stabilire un nesso con il tema, ben più ampio, del paesaggio, un'entità che generalmente si considera esterna ai confini dello spazio-galleria, anche se può esservi rappresentata. E' un tema, quello del paesaggio, a cui dedico la mia attenzione già da tempo, un tema vastissimo, potenzialmente inesauribile, per le relazioni che innesca fra storia e natura, e che considero centrale fra tutti quelli che ineriscono le questioni fondamentali dell'esistenza. Per me questa sulle problematiche dell'allestimento, anche in relazione a un tema come quello del paesaggio, è una riflessione ancora aperta, che potrebbe sfociare nell'esperienza di Killing Floor. Questo almeno è quanto mi auguro.
Recentemente, ragionando sull'interessante esperimento di Solid Void, la 'scuola per artisti' – molto sui generis – di Progetto Diogene, che ho potuto seguire da vicino, pur non essendovi coinvolto in prima persona, mi sono reso conto che essa riguarda l’artista in sé, come persona, soprattutto in una fase iniziale del suo percorso, se non prima ancora. Cosa sia un artista, perché una persona decida di prendere questa strada (se si può sempre parlare di decisione) e quali siano le problematiche sulle quali discutere, lavorando insieme ai 'tutors', per arrivare a delle conclusioni, o comunque al nocciolo del problema: l’artista, o aspirante tale, quando si trova davanti a sé stesso, senza schermi (perché i 'tutors', lo hanno aiutato a liberarsene), per cercare di capire perché e come è arrivato lì e dove potrebbe andare.
Diversamente da Solid Void, nel progetto che mi piacerebbe realizzare in via Parma 31 (e che vorrei si avvalesse dell'impegno in prima persona dei componenti di Diogene, almeno di quelli fra loro personalmente interessati a farlo) in primo piano non ci sarebbe l’artista ma l’opera, un’opera nuova, appena uscita dallo studio, che verrebbe allestita per la prima volta, stabilendo una relazione con lo spazio – grazie anche alla mediazione dell’editor – e poi anche con altre opere già presenti, o che comunque sarebbero allestite più o meno contemporaneamente, pur senza stabilire l’esistenza di una collettiva. Si potrebbe dire, bensì, che in seguito a una serie di successive aggregazioni, si formerebbe un insieme di opere diverse all’interno di un unico spazio, in quantità limitata (perché le misure dello spazio non sono sufficienti ad ospitarne più di tante) e variabile, all’insegna della mobilità e della fluidità, per cui tutto apparirebbe in costante mutamento, come in uno stato di sospensione.
Ci potrebbero essere (sono, anzi, abbastanza evidenti) delle analogie con campo volo, ma a me sembrano per lo più apparenti, o comunque soltanto parziali, perché in quel caso l’artista è rigorosamente solo, la sua opera è sì nuova e mai vista prima, ma rimane visibile al pubblico soltanto poche ore, per poi essere subito smontata e sottratta alla vista, mentre in questo caso ci potrebbero essere diverse opere di diversi autori, che rimarrebbero allestite più a lungo, e in quel periodo potrebbero essere modificate, in parte, o anche soltanto spostate, per stabilire relazioni episodiche con altre opere allestite nello spazio.
Questa scuola – se vogliamo chiamarla così, mettendo in evidenza un rapporto di complementarietà, o consequenziale, con Solid Void – avrebbe come tema prevalente l'allestimento di una o più opere d'arte in uno spazio pubblico, con il coinvolgimento del sottoscritto come figura di riferimento, soprattutto nella fase di selezione degli autori, che verranno peraltro proposti anche dagli altri partecipanti al progetto. Io agirei la parte del cosiddetto editor, ma non in modo esclusivo, perché questa funzione verrebbe condivisa con gli stessi artisti, ognuno dei quali sarebbe in grado di rivolgere uno sguardo fresco verso le opere degli altri.
In verità, io sono convinto che sarebbero le opere stesse ad esprimere le proprie intrinseche attitudini, confrontandosi con opere diverse, tutte quante mettendosi in gioco con i loro propri rispettivi, diversi, linguaggi. La nostra funzione – mia e degli autori – sarebbe quella di attivare tali spostamenti, o effettive modifiche, dettati e dettate dalle opere stesse.
Ho parlato di scuola, e quindi, implicitamente, di lezioni, perché credo sarebbe interessante pensare alla possibilità di aprire, sia pure di tanto in tanto, irregolarmente, a un pubblico non soltanto di semplici curiosi, ma piuttosto di persone che si presume interessate, studenti di scuole d’arte, altri artisti, per cui si potrebbero stabilire delle date in cui gli autori sarebbero presenti – con o senza l’editor – per discutere e lavorare insieme (allestendo una o più opere) al cospetto di un pubblico. Questa parte del progetto Killing Floor a mio parere si presterebbe molto ad essere gestita (o co-gestita) da Diogene, per la sua oggettiva coerenza con altre esperienze del gruppo in questi ultimi anni (soprattutto a partire dall'installazione del tram sulla rotonda di corso Verona) in primis quella, già citata, di Solid Void.
Manterrei però sempre per Killing Floor, anche in quei frangenti, una dimensione essenzialmente operativa, evitando di utilizzare e/static come un luogo di discussione, dove prevalga il linguaggio parlato: è una modalità che a mio parere trova il suo ambiente ideale piuttosto nel tram, il luogo privilegiato delle iniziative di Diogene, che peraltro si trova a pochi passi da e/static. Lo spazio di via Parma 31, in questa sua nuova connotazione, dovrebbe invece essere un luogo in cui si fanno cose, in cui qualcosa avviene, e non è il caso di parlarci troppo sopra. Piuttosto, la parola – ovvero, la discussione – non sarebbe certamente bandita (vorrei scongiurare ogni pericolo di dogmatismo..), ma dovrebbe avere una parte minoritaria, o subordinata, per lo più strumentale, come una chiave che serva ad aprire una porta per entrare in un altro spazio, dopodiché soltanto quello conta, lo spazio, e quel che vi avviene, che deve essere inteso per come è, senza che troppe parole vi si sovrappongano.
Direi, per essere ancora più preciso, che andrebbe bene, molto bene, se l'autore parlasse soltanto di come ha realizzato l'opera, e da dove è partito, che cosa cioè avesse – o non avesse – in mente, mettendo a parte il pubblico di una fase molto importante del suo percorso, pure generalmente poco considerata, soprattutto da storici e critici d'arte. Quel che vorrei evitare è piuttosto la discussione sul significato dell'opera, quell'atteggiamento pernicioso che si manifesta nella (troppo) ricorrente domanda “che cosa significa?”. 
Perché quella è la funzione troppo spesso assunta dal linguaggio parlato o scritto, sovrapporsi all’azione, o ai suoi effetti, le opere, cristallizzandone l’energia reale e fattuale, per portare in primo piano i soli valori semantici, che nel migliore dei casi agiscono da surrogati di quell’energia. Esse dovrebbero essere messe in condizione di poter parlare da sole, con il loro proprio linguaggio, non intaccate dall’azione del linguaggio ‘universale’, quello che, scrivendo o parlando, per descrivere o ‘spiegare’, sostanzialmente omogeneizza tutto, debilitandolo.
In questo ambito di lavoro, che al momento in cui scrivo queste righe non ha ancora preso una forma visibile ma continua bensì a crescere, alimentato dalla mia immaginazione e dalle discussioni fatte con alcuni amici artisti, le opere parlerebbero tutte insieme, in una sorta di conversazione, o di polifonia - un canto a più voci, tutte diverse fra loro.
A questo punto credo risulti chiaro che in via Parma 31, all'interno di Killing Floor, non si realizzeranno mostre collettive, soprattutto non ci saranno mostre curate, perché non ci sarà un curatore. Saranno le stesse opere a determinare, con la loro presenza, e soprattutto la loro collocazione – che non sarà rigida e immutabile – la forma del contesto, un luogo in cui elementi differenti si troveranno a coesistere, per stabilire quindi relazioni continuamente mutevoli, con una programmatica disponibilità degli autori a modificare, oltre alla posizione, anche la forma delle opere, o quanto meno il loro atteggiamento nei confronti degli altri elementi compresenti.
Vorrei però evitare che tutto ciò irrigidisse lo spazio di via Parma, dove potrebbero invece avere luogo anche episodi diversi, sganciati da questa idea di scuola, sia pure 'sui generis'. Ma se questo luogo, questo paesaggio interno in costante trasformazione, avesse dei confini instabili e liberamente modificabili, mantenendo sempre un'idea di spazio aperto in cui mostrare qualcosa di nuovo da parte di chiunque – in particolare nell'ambito di Diogene, in primis gli stessi artisti componenti il gruppo – sia ritenuto interessante (da parte mia e da parte di chi collaborerà con me, allestendo opere), allora sì, tutto, più o meno, sarebbe possibile.

Carlo Fossati, 2012

 

 

 

Verso metà del mese scorso [settembre 2012] ci demmo appuntamento un pomeriggio, io, Andrea e Manuele, in via Parma 31, per un incontro sul Killing Floor. Andrea avrebbe portato due sacchi pieni di 'pietre', e io gli avrei lasciato le chiavi, perché fossero liberi di utilizzare lo spazio. Per un impegno improvviso e inaspettato, dovetti chiedergli di passare prima da blank, così gli avrei subito dato le chiavi di via Parma, loro sarebbero andati da soli e io li avrei raggiunti appena possibile. Dopo circa 15 minuti, Andrea con un messaggio mi informava che  c'era un problema con la serratura, o con la chiave, fatto sta che non riuscivano ad entrare..
Non appena mi fui liberato e riuscii a raggiungerli, li trovai in cortile ad aspettarmi: mi diedero la chiave, che effettivamente non girava.. ma soltanto perché la serratura era già aperta, e si trattava soltanto di spingere la porta (di ferro), che, facendo attrito al suolo, appariva come chiusa pur essendo aperta. L'episodio ci fece sorridere (Andrea subito ebbe un'espressione di sbigottimento vedendo come la porta, sia pure sforzandola un po', si aprisse facilmente, perché era già aperta) e io gli feci notare l'apparente stranezza della situazione, perché erano rimasti fuori per 20' o 30' convinti di non poter entrare nonostante la porta fosse effettivamente aperta.
Più tardi a casa mi venne in mente un appunto di Wittgenstein (letto molti anni fa su “Pensieri diversi”) che mi capita a volte di citare, quello che descrive la situazione di qualcuno che è all'interno di una stanza, prova ad uscirne spingendo la porta e non ci riesce, e si convince per un po' (anche soltanto per un minuto) di essere chiuso dentro anche se in verità la porta si potrebbe aprire, però tirandola. Non sapendolo, o non pensandoci, quell'uomo è effettivamente chiuso nella stanza, ed escluso dalla possibilità di uscirne.
La situazione di Andrea e Manuele è un po' diversa, perché trovandosi all'esterno, all'aperto, è lo spazio interno, che loro credono chiuso e inaccessibile, ad assumere una nuova valenza, un volume ampio e vuoto che rifiuta loro l'accesso, diventando una sorta di scultura fatta di aria, invisibile ma immaginabile, come un'entità assai rigida e dura.
Nelle settimane successive, siccome avevo lasciato a Manuele le chiavi, in attesa che lui stesso ne facesse fare un duplicato, per potermi rendere l'originale, io non ero più in grado di entrare, per la prima volta dopo molti anni quello spazio tanto familiare mi era precluso, trovandomi senza la chiave per entrarci, ed ecco che mi trovavo a vivere una situazione molto simile a quella che loro avevano già vissuto, sia pure per pochi minuti.
Poi dovetti partire per un viaggio di dieci giorni all'estero, e non ci fu più tempo prima per incontrare Manuele e farmi dare la chiave, che comunque non mi sarebbe servita. In quei giorni pensavo ogni tanto alla situazione che stava vivendo, unico possessore di una chiave per entrare a Killing Floor – sia pure temporaneamente – dove sapevo che si recava (me l'aveva detto lui stesso, in una mail che mi scrisse un paio di giorni prima della mia partenza) ogni tanto, soffermandosi per un po' di tempo, leggendo parti di un certo libro, guardandosi intorno, camminando nello spazio, elaborando dati che poi sarebbero in qualche modo confluiti in un'opera che stava portando avanti nel suo studio di via Belfiore, a circa tre chilometri di distanza da via Parma. Manuele ci andava sempre solo, in momenti diversi della giornata, usando la chiave che soltanto lui aveva, e nessuno sapeva che si trovasse lì, effettivamente nascosto dove a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente di andarlo a cercare.
Gli ho raccontato brevemente questi pensieri, circa due ore fa quando ci siamo incontrati in via Parma (mi doveva appunto consegnare la copia originale della chiave) e a lui è immediatamente venuto in mente il racconto di Kafka, “La tana”, in cui un animale (forse una talpa? è narrato in prima persona, “Mi sono costruito la mia tana e mi sembra ben riuscita” l'incipit)) si scava una tana labirintica, apparentemente inaccessibile da eventuali nemici, e altrettanto apparentemente sicura. Ma la sua sicurezza non regge a lungo, e l'inquietudine lo porta a costruirsi un'altra tana, lì nei pressi, molto più semplice, dalla quale controllare l'altra, vuota.
Credo che Manuele abbia intuito la somiglianza fra il suo comportamento e quello del protagonista del racconto di Kafka, pensando alle sue visite nella 'tana' sicura di via Parma, dove nessuno potrebbe venirlo a cercare, e al bisogno che sente di soffermarcisi soltanto episodicamente e per brevi periodi, prima di ritornare  fra le pareti che gli sono abituali e familiari del suo studio, là dove l'opera sta compiendo il suo lento percorso verso una possibile conclusione. 

 

 

Oggi [mercoledì 24 ottobre] sono stato in via Parma con Sara, finalmente, dopo tanto tempo dalla prima volta in cui si era parlato con lei della sua partecipazione a Killing Floor. Appena entrata, il suo sguardo è subito andato alle 'pietre' lasciate a terra da Andrea, circa un mese fa, ed è stato per me abbastanza emozionante accorgermi, guardandola, e poi sentendo i suoi commenti, di come per lei quelle erano davvero pietre, percezione che a me non è più consentita, da quando so per certo (anche per averli toccati e tenuti in mano) che si tratta di pezzi di polistirolo, e altri materiali sintetici, 'trattati' e modellati dal Rodano fino a prendere delle pietre le sembianze. Quella di Sara è stata davvero la genuina reazione di chi si imbatta, senza preavviso, in un mucchio di 'vere' pietre, di varia forma e colore, vedendole d'improvviso davanti a sé, posate con apparente noncuranza sul pavimento.
Sara mi ha parlato di alcune cose a cui sta lavorando da qualche tempo, e che vorrebbe portare in via Parma. Ha parlato a lungo e con trasporto di molti aspetti che riguardano la genesi di questi lavori (o 'abbozzi', come li chiama lei) e le prospettive che le pare di intuire, a partire da questi primi risultati di ricerca. In questi giorni io sono molto preso da molti, troppi impegni che mi assorbono completamente, mantenendomi in un costante stato di tensione e di stress, e forse perciò ho potuto prestare soltanto in modo intermittente la necessaria lucidità e attenzione ai suoi discorsi.. Ma a tratti, quando mi è riuscito, le sue parole mi hanno preso e trattenuto per un po', e ho intravisto scenari stimolanti, perfino eccitanti. Mi è parso di scorgere un ampio paesaggio, all'interno del quale lei si sta muovendo, fatto dei suoi lavori, colti in varie e diverse fasi, che si distinguono fra di loro per una diversa dimensione temporale e che sembrano suggerire nuovi e anche, in parte, imprevedibili sviluppi, dai quali lei è sicuramente attratta, e che non perde mai d'occhio.
Mi capita, talvolta, che mi piaccia la forma di una cosa – o la stessa apparenza di una persona per caso incontrata – quando la vedo per la prima volta, senza saperne niente, e poi, quando le mie informazioni su di essa aumentano, mi accorgo che il mio interesse – generalmente è così – cresce, anziché scemare. Le cose che vengo a sapere mi interessano, superando la sfera dell'attrazione immediata arrivano un po' più dentro, e non è più soltanto (?) una questione di sensi, qualcosa dettato dall'istinto, che perciò non posso controllare, ma mi riguarda davvero molto da vicino, e profondamente, quindi torno a considerare quella certa cosa, o quella certa persona.
Quella cosa di Sara, così ho appreso dalle sue stesse parole, è fatta di 'scarti', prodotti di una sua scelta razionale, quando decide di ritagliare una tela per portarla alle misure prescelte. Ma essi non sono forse la materia stessa di qualcos'altro, qualcosa che avrebbe potuto essere, ma che lei, Sara, ha deciso un giorno che non fosse il caso, favorendo altre parti di quella stessa tela? Ora, quegli scarti mai buttati, ma rimasti sempre lì, come in attesa, sul pavimento del suo studio (o forse raccolti in qualche scatola) ritornano al centro della sua attenzione, lei è ritornata a considerarli, dopo qualche tempo, settimane o mesi o forse anni, li ha ripresi in mano e, con un movimento spontaneo (non preordinato), ripetitivo, quasi come respira una persona mentre dorme mentre anche sta sognando, forse -  li ha raccolti insieme in un mucchietto che è pian piano cresciuto fino a raggiungere una bella forma abbastanza regolare, però venuta così, senza essere decisa, perché quella forma l’ha presa da sé stessa. Ora quegli scarti sono diventati qualcosa, e non si può più fare a meno di notarla, questa ‘nuova’ cosa, e di farci delle riflessioni.
Ma nel corso della nostra conversazione sono emersi anche altri particolari interessanti: Andrea e Raffaella una volta, mesi fa, erano entrati nel suo studio proprio mentre lei stava preparando la soluzione di scagliola per realizzare uno di questi lavori che presto metterà sul Killing Floor, ma forse non ci fecero molto caso (lei pensa che comunque se ne saranno dimenticati). E Manuele, un'altra volta, ne ha visto per qualche attimo uno già fatto. Sara pensa che anche lui difficilmente se ne ricorderà, ma chissà.. Altre volte, lei ne è abbastanza certa, potrebbero aver visto, loro e altri amici, i ritagli di tela che invadevano il pavimento del suo studio, e che avrebbero formato (ma soltanto recentemente) quella piccola opera che mi ha mostrato in immagine sul suo portatile, e che le ho chiesto di portare, perché la trovo particolarmente interessante.
È stato anche piacevole scorgere sul suo volto un sorriso, appena accennato ma compiaciuto, quando, nel corso della nostra conversazione, emergevano certi particolari che ci facevano constatare come ci siano – ci saranno – molte cose in comune, in qualche modo, fra le sue opere e quelle di Manuele e di Andrea e Raffaella (parlo delle cose che faranno parte del Killing Floor in corso di definizione). Abbiamo intravisto insieme, così mi è parso, un paesaggio formato da elementi eterogenei sì, ma che conviveranno bene, nei prossimi giorni, almeno fino all'incontro 'pubblico' del 3 novembre.

 

 

Sabato 3 novembre 'apriremo' il Killing Floor, ci saranno, oltre a Sara, Raffaella, Andrea, Manuele e io, alcuni ospiti, non molti, tutti invitati da ognuno di noi. Mi aspetto che loro, gli ospiti, entrando nello spazio e notando quelle 'presenze', siano attratti da esse, o magari anche possano sentirsi respinti, innescando spontanee reazioni, che sempre accadono quando ci si trova di fronte a qualcosa o qualcuno che non si conosce, e che perciò suscita in noi simpatia, antipatia, o indifferenza. Quest'ultima sarebbe certamente quella più negativa, perfino esiziale, e perciò speriamo che non venga provata da nessuno degli ospiti. Ma le altre due sì, anche l'antipatia va bene, talvolta può essere perfino meglio della simpatia, quando si fonda sulla 'riconoscibilità' (o presunta tale) di ciò in cui ci imbattiamo per la prima volta.
Loro, gli ospiti, vedranno queste cose, si faranno delle domande, e ne faranno soprattutto a noi, per saperne di più: “cos'è questa cosa?.. e quest'altra, come hai fatto a costruirla? di cosa è fatta?”.
Queste sono le domande che ci aspettiamo, quelle che innescherebbero una conversazione dalla quale verrebbero dati preziosi, per chi voglia sapere, che si sovrapporrebbero alle impressioni 'del primo sguardo', per confermarle o contraddirle. Come succede quando si incontra qualcuno per la prima volta, ci piace oppure no, e parlandoci insieme, o chiedendone notizie ad altri, un'immagine più precisa, più 'plastica', inizia a prendere forma dentro di noi, che talvolta possiamo anche cambiare opinione.
Ecco, le cose messe da Andrea, Raffaella, Sara, Manuele e Alessandro (quando verrà) si dovrebbero presentare come persone, perfino più che come opere d'arte, ai visitatori, che proveranno a stabilire con loro – anche attraverso la nostra mediazione - relazioni più profonde e più solide, che vadano oltre la prima impressione (anche se in genere, come si dice, “è quella che conta”..).

Sempre oggi [30 ottobre] parlando con Sara, poco prima che ci salutassimo, ho accennato a cosa ci si potrebbe aspettare che faccia Alessandro (senza dire più di tanto, ovviamente) nei prossimi giorni, prima di sabato. Lui è un po' diverso da tutti, fa spesso video, oppure, anche se non si tratta di video, c'è sempre una dimensione 'volatile', impermanente, come quando si discorre con qualcuno e non c'è nessuno a registrare (per fortuna..). Se ci penso, non sono molte le sue opere vere e proprie, nel senso puramente oggettuale, me ne vengono infatti in mente molto poche. Gli altri invece creano 'cose', con le proprie mani, e alla fine sempre o quasi rimane un oggetto a rappresentare il loro lavoro, il prodotto di un tempo dedicato al fare, appunto. Forse per Andrea e Raffaella è un po' diverso, talvolta, anzi spesso, quando ciò che fanno è 'transeunte', cambia continuamente (sia pure impercettibilmente, a volte) forma, ed è difficile afferrarne una stabilita più o meno per sempre, perché sfugge, come acqua fra le dita. Anche Manuele, credo, in questa particolare occasione sta lavorando a qualcosa di sfuggente, forse anche a lui stesso che ne è il creatore. Ma essendo un pittore, sempre qualcosa di solido, di fisicamente presente si staglia davanti ai nostri occhi, e ai suoi.
Alessandro è un po' diverso da tutti gli altri, davvero, e credo che anche il suo intervento sarà diverso dagli altri, sarà forse un po' più vicino a quell'idea di persona che mi aspetto venga proposta, o suggerita, da tutte le opere sul Killing Floor di sabato 3 novembre.

c f, ottobre 2012

 

 

Sabato mattina, 29 dicembre 2012, ci rivedremo in via Parma, ci saranno Raffaella e Andrea, Sara, Alessandro, Manuele. Ritorneremo a guardare insieme le cose sparse sul Killing Floor, che non saranno più le stesse dell'ultima volta, non tutte almeno, ma ce ne sarà anche qualcuna nuova, e tutto ci dovrebbe apparire cambiato, diverso da prima.
Quest'anno sta per chiudersi, e non so cosa verrà dopo, ne parleremo, domani, magari anche dopo il nostro incontro in via Parma, a pranzo. Credo che sia necessaria, qualunque cosa si farà, da parte di chiunque parteciperà, una disponibilità a rischiare qualcosa, a mettersi in gioco, a fare qualcosa per vedere cosa potrebbe succedere, perché sarà una cosa che non si è mai fatta prima, o comunque non in quel contesto. Io credo che senza questa predisposizione a un certo rischio, senza l'impiego di tutta l'energia necessaria per agire - lì, sul Killing Floor - senza la curiosità e la voglia di aprire una porta ancora chiusa (soprattutto dentro di sé), niente che valga la pena potrebbe accadere.

c f, dicembre 2012

 

 

ciao Carlo,

grazie davvero per gli inviti di sabato. Mi ha fatto un grande piacere essere lì al Killing Floor e poi a cena con tutti voi. 

Mi sono chiesta quale feedback, da cellula esterna al progetto, potessi far pervenire a te che mi avevi invitata.
Beh, le impressioni immediate sulla cosa sono state diverse e anche in parte contrastanti tra loro.

Leggendo preventivamente il testo pubblicato sul sito ho immaginato un ambiente e una situazione che poteva avere un certo grado di elasticità e sviluppi inattesi. 
Mi sentivo incuriosita e chiamata ad assumere una posizione altra da quella di visitatore di una mostra. Perche? Forse proprio perchè in quest'ultimo caso di solito esiste un pubblico invitato a "fruire" l'opera che ha raggiunto già, idealmente, uno stato "finale". Tale aspetto, insieme al peso sociale e politico del momento-inagurazione (sempre in riferimento a quanto avviene nella norma), porta a una osservazione quasi passiva o meglio "a distanza"… non saprei come definirla ma ora non trovo parole più chiare.
Nel primo caso invece, intendo al Killing Floor, sapere che i lavori presenti erano forse stati modificati, o avevano cambiato posizione spaziale nei mesi e potevano ancora subire in quel luogo dei cambiamenti, mi ha in qualche modo fatto sentire un possibile agente (nel senso di fattore che agisce, o può agire) all'interno di quel campo di forze fatto della relazione in essere tra le opere, tra la singola opera e lo spazio, e ancora con le persone, ecc. Come dire... un insolito stato di responsabilità nell'ipotesi che una reazione di qualche tipo possa modificare alcuni equilibri.

Eppure, in aggiunta a tutto ciò, ricordo che quando siamo usciti da lì ho pensato: probabilmente non è accaduto nulla. C'è un'aria immobile, anche se, cosa in sé positiva, un fiume di parole ha riguardato solo e unicamente quello che succede dentro e intorno agli oggetti presenti e nel frattempo è calato il sole. L'immagine dell'interno è come siderale e fuori dal tempo, il luogo totalmente chiaro, la luce diffusa toglie solidità agli oggetti. Sono trascorse quasi due ore e nessun equilibrio pare essersi spostato. 
Sara era entrata con l'idea di portare via il lavoro e invece la sua stoffa è rimasta lì... qualcosa dunque le ha fatto cambiare idea... !? 
Sono riuscita a scambiare parole solo con due degli artisti oltre che con te, Carlo... e ora? Lo spazio viene richiuso e tutto sospeso fino a che cosa... a quando?

Manuela, 26/5/13

 

 

Sara, giugno 2013