Killing floor blog

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Nello spazio contenitore (normalmente definito con l’espressione ‘white cube’) il fluire viene trattenuto, interrotto. Il compito di chi allestisce una mostra di opere d’arte è sempre, prima di tutto, quello di riattivare questo fluire, renderlo possibile, al massimo delle possibilità offerte dallo spazio. Ma non è comunque sufficiente stabilire quel certo tipo di energia – pure, condizione indispensabile per creare un organismo vivente, piuttosto che un arido elenco di opere radunate in uno spazio espositivo – fra i diversi elementi nello spazio, se si ignora il luogo in cui esso si trova, quello da cui si entra e dove si ritornerà, e che può essere visto anche da lì dentro, attraverso le finestre, se ce ne sono, o udito attraverso suoni e rumori che vi si producono.

Nella mostra di Alessandro Quaranta al Cairn di Digne, intitolata “Univers inferieur”, ciò che sta fuori si può vedere da una finestra che si trova sul lato Sud del Cairn, l’unica lasciata aperta (le altre sono state chiuse per creare il buio necessario alla proiezione del video Les animaux de Stella, nella sala grande), ma anche sul tavolo dell’opera I non illusi errano, sullo schermo orizzontale che ci permette di vedere l’immagine riflessa sulla superficie del liquido contenuto in una tazza posta su una mensola fissata a un muro esterno. La vediamo in tempo reale, è mobile, viva, vediamo mentre siamo all’interno quel che sta accadendo fuori, in una minuscola porzione del reale: la tazza è il terzo occhio di ogni visitatore che guardi verso lo schermo sul tavolo, e questo tipo di visione corrisponde alla “soggettiva” di certi rari film, quando vediamo ciò che vede il protagonista, con i suoi stessi occhi.
Ma lo stesso video, girato qualche mese prima della mostra, è strettamente legato al luogo, o quanto meno alla regione, trovandosi il Lac des eaux chaudes (dove il video è stato girato, nei mesi scorsi) a qualche chilometro dalla sede del Cairn. In questo caso si tratta di un tempo passato, rispetto al presente inquadrato dalla finestra che accende durante il giorno gli Oracoli e a quello che spiamo, dall’interno dello spazio, osservando il centro del tavolo di I non illusi errano, ma una certa idea di unità aristotelica di luogo tempo e azione non viene comunque contraddetta. Infine le tre Montagne impossibili, tutto un altro tempo, e un altro spazio, quelli liberi, sfuggenti, incontrollabili, del sognare, attività che non conosce limiti e non accetta regole di sorta, ed è un sogno in particolare che Alessandro ci rivela, ci racconta, tre volte di fila. Non lo fa con le parole ma servendosi di un segno continuo, quello dello scarabocchio, o ghirigoro, che utilizza, con matita o penna biro, per rappresentare le immagini apparsagli, appunto, in sogno, di una montagna che si trova neppure troppo lontano da Digne (a circa 80 km in linea d’aria, sul versante italiano di queste montagne) in un luogo a lui molto caro, legato alla sua infanzia e agli affetti familiari più intimi e profondi.
È probabile che i visitatori abituali dello spazio espositivo del Cairn convenuti all’inaugurazione si siano sorpresi, accorgendosi di come non pareva più lo stesso, e di come, trovandosi all’interno, al chiuso, venivano invitati a guardar all’esterno, verso l’Aperto, verso ciò che erano convinti di aver lasciato fuori, come sempre, e che riappariva invece, inaspettatamente, una volta entrati. Non dovevano probabilmente più sentirsi in un luogo altro, separato dal mondo, ma ancora nel mondo, senza più separazioni fra un dentro e un fuori, fra una realtà che accade e cambia continuamente e un’altra rappresentata, cristallizzata in un ambito astratto, avulso dal tempo e dal suo divenire

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Voci dal bosco di Digne

La scorsa settimana a Digne, mentre mi trovavo nell’area del geoparco del Cairn dedicata alle farfalle, e il lontano frastuono delle draghe al lavoro sul greto del fiume dominava, ho scorto, appesi ai rami di una pianta che forse non avevo mai visto prima, dai radi fiori azzurrini, certi curiosi semi, tutti essiccati. Sono piuttosto degli involucri, leggerissimi e semi-trasparenti, contenenti ognuno un paio di semi di quella pianta, e mi sono talmente piaciuti che ho deciso di prenderne quattro, staccandoli dai rami. Non avendo niente con me, nessuna borsa e nemmeno una giacca, li ho infilati, con la massima cautela, nel taschino della camicia, in alto a sinistra. Rientrando in casa, ancora in dubbio su quale potesse essere la soluzione migliore per riporli e conservarli intatti, ho deciso infine di metterli fra le pieghe di una giacca impermeabile (nuova, acquistata prima della partenza per Digne) contenuta in una grande borsa di carta: lì sarebbero rimasti al sicuro, fino al nostro ritorno a Torino. Per la precisione, li avevo infilati nelle due maniche, spingendoli delicatamente al loro interno, prima di ripiegarle.

 

 

Stamattina, mentre uscivo dalla cucina andando verso il bagno, ho sentito dietro di me un rumore, flebile, frusciante: qualcosa doveva essere caduto sul pavimento, oppure sul tavolo, qualcosa di molto leggero, come un ramoscello con qualche foglia secca, ma poteva anche trattarsi di un piccolo animale. Tornando sui miei passi, e guardando in giro, ben presto notavo, sul pavimento, le forme dei quattro involucri contenenti i semi raccolti a Digne, sparsi sul pavimento in un’area limitata, formando una figura a rombo, quasi perfetta, circa 40 cm la sua diagonale maggiore, circa 20 quella minore. Ci ho messo pochi secondi a capire cosa era accaduto: stamattina (o piuttosto ieri sera? non riesco a ricordarmene, ora) avevo tolto la giacca impermeabile dalla borsa che la conteneva, nel corridoio, appendendola a una gruccia a sua volta appesa alla struttura del soppalco, e quando sono passato lì accanto, toccandola inavvertitamente, i quattro semi, in precario equilibrio all’interno delle maniche, pressati dall’azione lenta ma inesorabile della forza di gravità, erano caduti a terra, producendo quel lieve rumore che mi aveva talmente sorpreso.
Erano tornati con noi in auto da Digne, e soltanto qui, per la prima volta, li ho sentiti parlare, mentre laggiù erano rimasti muti come la maggior parte degli animali incontrati in quei giorni: le trote, il millepiedi, il rospo, le farfalle, la lucertola, la chiocciola, il bruco. Muti come l’immagine tremolante sulla superficie del tavolo dell’opera di Alessandro, e come le sue Montagne impossibili, venute dai suoi sogni.

                                                                                                     Carlo Fossati, 1° ottobre 2019

 

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