On the waterfront

Voices / Landscapes (for the eye and ear)

A partire dal 26 settembre al Kwun Tong Pier di Hong Kong, per l'edizione 2014 di Around, le opere di quattro diversi artisti, Michael Graeve, Tetsuya Umeda, Paolo Piscitelli e Phill Niblock, aggiungeranno le loro voci ai consueti suoni e rumori del paesaggio, sia naturali – lo sciabordio delle onde, i versi degli uccelli, le voci dei passeggeri che arrivano per salire sul ferryboat – sia ‘artificiali’ – il motore del battello che attracca o parte, il suono della sua sirena e il rumore sordo delle auto sulla strada sopraelevata che sovrasta il pier.
All'interno delle loro installazioni, fatte di oggetti diversi accuratamente scelti e quindi assemblati, Michael Graeve e Tutseya Umeda performeranno creando eventi effimeri che il pubblico potrà cogliere proprio mentre avvengono, mettendo in ascolto occhi e orecchie.
Per le sue performance, Michael Graeve è solito allestire un cospicuo insieme apparentemente caotico formato da vecchi apparecchi di trasmissione del suono, giradischi, radio, altoparlanti, confusi con pannelli dipinti monocromaticamente da lui stesso. Si mette quindi lentamente, e pazientemente, in cerca di sonorità che vengono prodotte, grazie al suo diretto intervento manuale, da quegli oggetti, senza usare nessun disco, nastro o altri supporti. Niente è stato registrato in precedenza, niente viene ripetuto, ma tutti i suoni vengono emessi in quel momento da ogni apparecchio per la prima volta, e in alcuni casi anche per l’ultima, quando cioè l’oggetto, molto logorato dal tempo e dall'uso, si guasta irrimediabilmente per le sollecitazioni portategli da Graeve durante la sua performance all’interno dell’installazione, muovendosi come un cercatore di suoni, in attesa di precarie armonie, che sia lui sia il pubblico presente ascolteranno per la prima volta.
Tetsuya Umeda assembla una quantità di oggetti disparati, che raccoglie sempre nei dintorni dei luoghi in cui si esibirà. Si può trovare un po’ di tutto in queste installazioni, ovvero tutto ciò che per le sue peculiari caratteristiche potrà, interagendo con qualcuno degli altri elementi scelti, provocare fenomeni che produrranno suoni e rumori, calore, freddo, talvolta emissioni di fumo o di luce. Durante l’happening, Umeda si prende cura molto seriamente, con grande attenzione e concentrazione, di operazioni apparentemente prive di senso. In effetti, non si danno significati nelle sue performance così come nelle sue installazioni, cioè egli non li assegna loro. Ma ciò che accade ha certamente un forte senso, perché si tratta di fenomeni fisici ben precisi, non c'è nessuna finzione, nessuna rappresentazione. Il calore sprigionato dalla fiamma di un fornello a gas, il freddo emanato da un pezzo di ghiaccio sintetico, la forza dei pesi che alzano o abbassano oggetti attraverso l’uso di verricelli a corda: sono tutti fenomeni assolutamente reali, e il compito di Umeda è di gestirli, ovvero attivarli, perché abbiano luogo, creando così situazioni che, quando accadono, spesso non è più in grado di controllare o di influenzare, comunque non più di tanto.
Così come anche Graeve, Umeda è sempre assorto quando realizza le sue performance, sa di dover rimanere concentrato, senza distrarsi mai, eppure ciò non trasmette nell'osservatore un senso di ansia, perché l'atteggiamento di entrambi questi artisti è leggero, le loro rispettive performance sono all'insegna della fluidità, e in esse gli accadimenti hanno luogo con naturalezza.
C’è una frase che ho trovato in un'intervista a Tetsuya Umeda, essa ben definisce il suo approccio verso la realtà, che si manifesta nitidamente nel suo lavoro: “from the viewpoint of a zero year-old”. Ma è un approccio che constato anche nelle movenze di Michael Graeve quando si aggira, cautamente e con la massima attenzione di tutti i suoi sensi, all'interno delle sue caotiche installazioni, attratto e guidato dal riverbero di suoni e colori, cercando musiche fugaci che si fermerà per qualche secondo ad ascoltare, insieme a noi, come noi rapito e affascinato.
Sempre al pier, nei pressi delle installazioni di questi due artisti, la presenza discreta ma persistente di At the same time, di Paolo Piscitelli, scandirà, col suo orologio da parete, il tempo reale del luogo, mentre i suoni emessi dall'altoparlante (registrati nel 2008 nei dintorni del suo studio, tramite i microfoni di una videocamera) stabiliranno una connessione virtuale con un altro spazio, un altro tempo. E l’installazione video Topolò 1, di Phill Niblock, mostrerà in loop un fenomeno assai semplice ma nello stesso tempo ammaliante, uno scroscio d'acqua molto sonoro che cade sulla superficie liquida di una fontana provocando la formazione di bolle d'aria. L'azione viene ripetuta in ralenti, con il suono rallentato a sua volta, creando nell'osservatore un effetto percettivo di straniamento, assai vicino alla trance.

In un’altra zona della città, al Connecting Space di Fortress Hill, verranno proiettati lavori video di Carlos Casas, Paolo Piscitelli, Phill Niblock e Alessandro Quaranta, realizzati tutti a partire da un approccio analogo: guardare/udire il paesaggio in modo totalizzante, senza trascurare nulla di quanto accade nel momento delle riprese, ovvero registrando eventi casuali, spesso sul liminare fra visibile e invisibile, proprio mentre si verificano, come farfalle che appaiono all'improvviso e vengono seguite per qualche tempo mentre volano.
I video di Carlos Casas sono esplorazioni molto lente, accurate, di un luogo, sia usando riprese fisse, poi montate, come nel caso di Pool, sia carrellate molto lente, iniziando da un piccolo centro abitato per finire su un bosco nelle sue vicinanze, come in Smoke, sia con una carrellata a 360°, lentissima, che ripete lo stesso percorso per tre volte di seguito, come accade in Dead Sea. Ogni volta, Casas attua due modalità di ripresa audio, una d’ambiente e una che si serve delle onde corte radio catturate in quel luogo, nel preciso momento in cui le riprese hanno luogo. Nel caso di Smoke, si sentono i rumori del locale mensa del campo di lavoro in Patagonia in cui Carlos ha girato il video, e pari rilievo, nello spettro sonoro del video, ha la voce del cantante argentino Sandro, insieme a quella di un presentatore, provenienti entrambe da una stazione radio argentina. Per quanto invece riguarda Pool, la presenza delle onde radio, sempre rigorosamente in presa diretta, in quel preciso luogo a quell’ora, è molto più evidente rispetto a quella dei suoni ambientali, e col trascorrere del tempo, e il passaggio dal giorno alla notte, esse si possono udire sempre più chiaramente, mentre le immagini della piscina abbandonata sono sempre più labili e inconsistenti, fino a dissolversi nel buio. In Dead Sea, mentre il sole sta tramontando, la voce del muezzin presa da una stazione a onde corte, distorta e fluttuante nell'etere, ma forte nel suo contrasto con il deserto e il silenzio assoluto del paesaggio, è protagonista, e si ode soltanto uno strano disturbo sonoro accompagnarla in sottofondo, come un bordone elettronico.
Il video presentato da Alessandro Quaranta, The Changing of the Guard, gioca molto sul contrappunto fra i suoni ambientali – soprattutto le voci dei giovani protagonisti – e le parti di silenzio, appositamente create dall'autore; il ritorno alla piena udibilità del suono, verso la fine del video, ha un effetto di alta sollecitazione sullo spettatore, che si sente come in altalena fra una dimensione onirica e una più realistica, così come spesso, sognando, un rumore che non sappiamo mai bene se proveniente dal sogno stesso o dalla realtà ci risveglia improvvisamente.
Nel suo lavoro Topolò 2, un video lungo circa 15 minuti girato nel 2006 durante il festival organizzato nel piccolo villaggio italiano omonimo, fatto di immagini assolutamente reali ma che per colori e forme hanno qualcosa di psichedelico, Phill Niblock ci permette di compiere un'esperienza di pura contemplazione, per l'occhio e per l'orecchio insieme. Mentre il suono forte e icastico prodotto dallo scrosciare di una sorgente di montagna (che non viene peraltro mai ripresa dalla camera) accompagna costantemente il lento scorrere delle immagini, vediamo una forma tondeggiante (si tratta di una prugna, irriconoscibile, perché molto ingrandita e perché la sua superficie umida riflette degli alberi sovrastanti) che sembra fluttuare circondata e semi-sommersa dall’acqua, mentre entrambe, acqua e prugna, mutano continuamente colore, dal verde al blu e viceversa, riflettendo confusamente le immagini di cose (soprattutto le chiome degli alberi) che stanno loro intorno.
Paolo Piscitelli, nel suo labor #3, si confronta con la superficie di un tavolo tutta ricoperta da uno strato di creta, ripetendo su di essa – sfiorandola appena – un gesto molto preciso del suo braccio sinistro, usato un po’ come la spazzola di un tergicristallo sul parabrezza di un'auto, per determinare mutamenti lievi ma progressivi della superficie stessa, che appare ben presto molto simile a una radura o a un litorale sabbioso, spazzati dal vento. Così, pur continuando la camera a registrare ciò che accade su quella piccola superficie, la sensazione dell’osservatore è quella di trovarsi al cospetto di un vasto paesaggio. L’effetto di straniamento è accentuato anche dai suoni, registrati dall’autore negli immediati dintorni dello studio in cui ha luogo la performance, in quegli stessi momenti, rivelatori di azioni che appaiono incongrue rispetto all'azione di Piscitelli, ma ben presto acquistano, curiosamente, una parvenza di plausibilità, come se davvero essi fossero prodotti dall'azione del performer.

Carlo Fossati, 2014
 

Il Kwung Twong Ferry Pier è una grande cassa armonica dove i rumori del porto risuonano, amplificati; è un luogo di incrocio di suoni e di persone, di esperienze fra realtà e immaginazione, dove si sospende per qualche minuto (nell'attesa del ferry) la vigilanza sempre in atto per chi vive nella città caotica, rumorosa, sovrappopolata.
Qui il sogno sembra prevalere, qui è il tempo e il luogo del sogno ad occhi aperti, i rumori e i suoni entrano dappertutto in quello che è soltanto apparentemente uno spazio chiuso, pieno com'è di aperture, di anfratti, di visioni improvvise del mare e della città, in questo prolungamento della terraferma che sta come sospeso sul mare, a cui soprattutto appartiene.
Tutto ciò è natura o artificio? È forse questo un luogo in cui il naturale viene enfatizzato e stravolto, con il mixing centrifugato di mille suoni e rumori che si incontrano/scontrano lì, creando un mondo altro, reale tanto quanto immaginario, grazie anche alla luce, e al vento di mare, odoroso e umido, che trascina i suoni a suo piacimento in ogni direzione, senza quasi trovare ostacoli.

Il [Kwung Twong Ferry] Pier è diviso in due parti, nel senso della lunghezza (ovvero nella direzione dalla terraferma al mare), da una lunga inferriata, che tuttavia permette di vedere ognuna delle due parti, a seconda che, venendo dalla città, ci si trovi in quella di destra o in quella di sinistra; da una parte la stazione dei ferry vera e propria, con la sala d'attesa piena di sedili posti lungo i muri e lungo la stessa inferriata, dall'altra un luogo vuoto e come bloccato nel tempo. Esso è diventato, dopo la divisione, una specie di palcoscenico, in cui hanno luogo, di quando in quando, eventi diversi dal movimento di passeggeri, eventi artistici, come questo di Around 2014, che sono attinenti alla sfera dell'immaginazione, sganciati dalla cosiddetta normalità, e però visibili dai passeggeri, attraverso l'inferriata, così come la routine di partenze e arrivi dei ferries è visibile stando dall'altra parte. Questo è un aspetto molto importante del Kwung Tong Pier, che lo rende veramente unico, ai miei occhi. Il fatto che la cosiddetta realtà di tutti i giorni e quella eccezionale dell'arte, di una mostra d'arte che ospita anche performance al suo interno, per un periodo limitato a qualche giorno, siano così vicine, attive in parallelo, compresenti, è  sicuramente entrato a far parte del mio progetto, sia pure quasi inavvertitamente, durante la sua elaborazione, a partire dal gennaio/febbraio 2013, quando venni qui per la prima volta.

Un giorno, mentre sono al pier, mi accorgo che un giovane – non un cinese, ha i capelli scuri ma dovrebbe essere europeo, o forse medio-orientale – entra dall'altra parte, quella di Around 2014, per sbaglio, perché sta telefonando e non ha prestato bene attenzione a quale delle due porte imboccava. Continua a parlare al telefono mentre cammina, e poi sale perfino al piano superiore, quello dove c'è l'installazione di Tetsuya Umeda, prima di accorgersi dell'errore, e tornare indietro per infilarsi dalla parte 'giusta'. Un'altra volta, vedo che una signora anziana è entrata col nipotino, ma non per sbaglio, evidentemente vuol vedere qualcosa di ben preciso attraverso una grande apertura sul lato sinistro del pier, da un locale che avrebbe dovuto essere chiuso, utilizzato da noi per collocare le apparecchiature dell'opera di Paolo Piscitelli. Il bimbo non ne vuol sapere, continua a frignare, ma lei insiste a rimanere, guardando qualcosa forse verso le montagne, lontano, e rimane ancora lì per parecchi minuti, assolutamente noncurante delle varie opere allestite, perché il suo interesse è per tutt'altro.

La presenza dell'elemento acqua lì al pier è preponderante, la si può vedere dappertutto, la si può udire, come sciabordio delle onde sollevate dai ferries contro le pareti esterne, e la si respira continuamente con l'aria che ne è satura. Nell'installazione di Umeda, al piano superiore, due grandi contenitori di plastica ne erano pieni, e lui stesso vi attingeva spesso per 'nutrire' la sua installazione, mettendone all'interno di certi cilindri, da lui stesso costruiti usando grandi barattoli di latta. Questi, riscaldati da fornelli a gas o dal forte calore proveniente dalla combustione di carbone all'interno di altri barattoli, trasformavano l'acqua in vapore, e così, per via di un abbassamento della pressione interna, e grazie al riso che Umeda buttava al loro interno, su una graticola, si produceva un intenso, cupo, profondo suono che era la voce dell'installazione stessa, come la manifestazione di un certo spirito [vedi più sotto], che si mischiava agli altri rumori e suoni del pier, sempre più intenso mentre le ombre della sera si allungavano e soltanto il chiarore delle fiammelle dei fornelli permaneva a rischiararla, debolmente.
Nel grande spazio chiuso al piano terra, parallelo al corridoio che conduce ai ferries, l'installazione di Michael Graeve a sua volta rappresentava icasticamente lo stesso fenomeno di ibridazione e di osmosi fra natura e artificio, fra l'apparente staticità dell'ambiente e la qualità effimera e volatile degli interventi (tutti assai discreti) degli artisti, che è la vera cifra di Around 2014, il senso precipuo del progetto. Il grande ammasso, eterogeneo quanto indistinto, di cose all'interno dello spazio non è stato quasi toccato da Graeve, che vi ha soltanto inserito i suoi vecchi giradischi, amplificatori e altoparlanti, e i nuovi suoni emessi da quelle macchine sembravano imitare, o riprodurre, gli stessi rumori ambientali, soprattutto certe basse frequenze che si confondevano con quelle sempre presenti nello spettro sonoro del pier, seppur quasi inavvertite dai suoi frequentatori abituali, i viaggiatori che durante il giorno, a intervalli regolari, vi sostano per qualche minuto in attesa dell'arrivo dei battelli.
Per quanto riguarda l'installazione video di Phill Niblock, essa mi apparve ben presto essere un punto cruciale, il momento in cui forse più profondamente, più marcatamente si attuava questa specie di contrappunto molto fluido fra realtà 'solida' e realtà eterea, immaginata. Le immagini erano proiettate (contrariamente alla routine delle installazioni video in musei e gallerie) nella piena luce del giorno, o in una lieve penombra, e si poteva così intravedere l’apparire del sogno su quei muri duri e sporchi, e udirne i suoni frammisti a quelli del pier, realtà e illusione sullo stesso piano, confuse fra loro, difficile distinguerle.

Le persone si incontrano lì al pier senza darsi appuntamento, come nei sogni, e talvolta non ci si riconosce, come nei sogni, lì è facile sparire alla vista, pur rimanendo nello stesso luogo, ci sono mille anfratti, è perfino possibile salire sul tetto, avvicinandosi un po' di più al cielo, ancora, di poco, più lontani dalla città (da lì si vede una estensione maggiore di mare). Negli incontri le persone portano i ricordi e le esperienze del proprio passato in luoghi lontani, e quello di ieri o un'ora fa a Hong Kong, dove diecimila persone si radunano sulle strade del centro battendosi per poter continuare a sognare, e anche questo è un sogno, fatto da tanti insieme, che se lo raccontano, e lo raccontano anche a chi non era con loro sulle strade, e anche lui/lei entra a far parte del sogno, e lo potrà raccontare ad altri al suo ritorno a casa.

Un giorno, al pier, Umeda mi ha detto, per spiegarmi come funziona la faccenda del riso buttato nei contenitori cilindrici mentre stanno sul fuoco, di aver rinvenuto in Ugetsu Monogatari di Ueda Akinari, notizia di questa procedura, legata a un antico rituale, che veniva attuato proprio per suscitare quel suono particolare, profondo e monotono, considerato essere la voce di un certo dio delle montagne. Il regista cinematografico Kenji Mizoguchi si basò su quei racconti per creare il suo celebre film omonimo [I racconti della luna pallida d'agosto in italiano], anche se proprio quello in cui si parla del fenomeno del riso 'sonoro' non compare nel film. Invece vi è presente la particolare atmosfera del testo letterario, dove realtà 'solida' e realtà immaginata sono compresenti, e in qualche modo equivalenti.

L'allestimento al pier, soprattutto per quanto riguarda i suoni delle due installazioni di Piscitelli e di Niblock (e anche di quelli emessi durante la performance di Umeda) mi ha convinto della bontà di un'idea che ho da molto tempo: è certamente possibile allestire insieme in un unico spazio (ciò che il pier effettivamente è, pur in modo assai articolato) diverse opere sonore, che vi possono convivere senza danneggiarsi a vicenda, concorrendo a creare un nuovo, composito paesaggio sonoro. Ovviamente, una cosa del genere può avvenire lì perché c'è già una fortissima presenza di altri suoni e rumori, ai quali i suoni delle opere si aggiungono, arricchendo la tessitura sonora del luogo.
In una foto che scattai al pier in quei giorni, dalla parte riservata al traffico dei ferries, si vedono diverse persone sedute in attesa del prossimo arrivo, chi leggendo chi telefonando, e sullo sfondo, oltre l'inferriata, l'opera sonora di Piscitelli. Queste persone non prestano alcuna attenzione all'orologio e allo speaker, volgendo le spalle all'opera, ma sicuramente possono udirne i suoni, forse la parte degli uccelli, quella di metà giornata, la più sonora, oppure gli insetti della sera. L'impressione è che essi non siano in grado di distinguere quei suoni da quelli abituali che formano il paesaggio sonoro del pier, proprio perché essi vi si inseriscono con discrezione, adeguandosi perfettamente agli altri. Questo è per me un grande risultato di “Voices / Landscapes”, qualcosa di sicuramente desiderato ma in parte inatteso, perché non si è mai sicuri dei risultati, almeno io non lo sono mai. Ma questo esempio di arte che avviene fuori, nella cosiddetta realtà, mischiata ad altri eventi 'ordinari', notata da qualcuno e da qualcun altro no, come per tutti gli altri eventi o cose 'reali', è per me fondamentale, e mi illumina un pezzo del cammino che mi piacerebbe ancora percorrere, provando a realizzare progetti espositivi come questo, ovunque nel mondo.

Proprio quest'esperienza, inaspettatamente, mi ha messo di fronte a un altro fenomeno per me in gran parte nuovo e imprevisto, una vera e propria rivelazione, che ha modificato molte mie idee sulle opere d'arte e sul loro rapporto con lo spazio. Ad esempio l'installazione di Piscitelli, At the same time, la conoscevo bene per averla avuta all'interno della personale omonima di Paolo, nel 2008: era allestita a blank [spazio espositivo di e/static], in uno spazio ampio dalle pareti bianche, il pavimento grigio. Tolta da lì e portata in uno spazio per nulla asettico, anzi molto caratterizzato, praticamente all'aperto, fra l'altro a molte migliaia di chilometri di distanza, in un contesto culturale del tutto diverso rispetto a quello della mostra del 2008, non soltanto l'opera non ha perso il proprio valore artistico, al contrario ne ha acquisito altri nuovi, che l'hanno arricchita senza stravolgerla, come se l'aria nuova, e così diversa, del pier sul mare di Hong Kong avesse effetti tali da rivitalizzarla, allo stesso modo che per un essere vivente.
Qualcosa di simile è accaduto con la video-installazione di Niblock, di cui ho già parlato, allestita in modo affatto differente rispetto alla routine dei musei e delle gallerie, dove questo tipo di installazione viene proposto in uno spazio chiuso e buio, spoglio, ad eccezione di qualche seduta, un luogo del tutto alieno rispetto a quelli della vera vita. Qui non c'era un vero e proprio buio - almeno fino al tardo pomeriggio, al calar del sole - lo spazio non era chiuso, non isolato acusticamente (tutt'altro!) e addirittura, durante il giorno, la luce del sole, sia pure parzialmente schermata, rendeva difficile una percezione visiva ‘ideale’ delle immagini, che si confondevano con il supporto sul quale erano proiettate, un muro piastrellato a tessere di mosaico. Anche il suono, pur forte e ben udibile, si confondeva con i suoni e rumori del pier, spesso molto forti, anche sovrastanti, a seconda dei momenti della giornata e delle varie operazioni connesse ad arrivi e partenze dei ferries.
Insomma, da allora, dopo questa esperienza, ho idee molto diverse rispetto alle opere d'arte e al modo in cui si dovrebbero allestire, ho modificato quelle che avevo da sempre, ovvero ora contano molto per me anche queste nuove idee, certamente non meno di quelle che avevo prima in modo esclusivo e quasi dogmatico. Se cioè prima mi sembrava necessario, se non indispensabile, uno spazio vuoto e ‘pulito’, dove le connessioni fra le varie opere siano chiare e nette, ora sono fortemente stimolato dalla possibilità che l'opera si confronti con un elemento estraneo e inusitato, con un oggettivo disordine piuttosto che con l'ordine e la pulizia del muro bianco e del pavimento monocromo, generalmente grigio. E trovo altrettanto stimolante il confronto con un pubblico non specializzato, o comunque non quello solito che decide di andare a vedere opere d'arte in musei o gallerie. Al contrario, la possibilità che le opere vengano allestite – com’è appunto avvenuto al pier – all'interno di uno spazio pubblico, frequentato da un pubblico ignaro e disinteressato, mi fa intravedere scenari intriganti, situazioni in grado di attivare nelle opere stesse energie nuove e insospettabili, proprio quando esse non vengono percepite come opere d'arte, ma come elementi di un certo paesaggio, alla stregua di mille altri lì presenti, con i quali rapportarsi con la massima naturalezza, sia ignorandoli sia notandoli, casualmente, per stabilire un contatto anche momentaneo, diverso per ogni singolo fruitore.
Così mi sembra che l'opera possa attingere a uno stato di libertà quasi illimitata, rigenerandosi e rinascendo ogni volta nuova, a seconda delle qualità del fruitore, del suo punto di vista (in senso anche fisico), delle sue personali aspettative, se ce ne sono, e della sua lettura dell'opera stessa, anche e soprattutto quando questa relazione si attua al di fuori di un ambito in cui è vigente un sistema di designazione di tipo artistico, con le sue regole e soprattutto con i suoi clichet.
Non è proprio questo che cercavo da sempre? La libertà dell'opera come elemento fondamentale, e necessario, per il raggiungimento della mia stessa libertà, che non può esistere senza quella, ovvero: io non posso essere libero se l'opera con la quale mi confronto non è a sua volta libera, e in grado di sorprendermi e di sfuggirmi sempre. E la stessa cosa vale, tanto più, a parti invertite.

Carlo Fossati, 2014-15

 

                                                                                                   (this image by Elaine Ho, 2014)

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