(senza fine)

 

Breve storia di via Parma 31
 

Da studio d’artista a spazio espositivo, o piuttosto ‘di accadimento’ (tra progetti espositivi, performance di varia natura, concerti e altro ancora) poi di nuovo studio artistico, e ancora luogo di eventi e di raccoglimento, infine soltanto magazzino, sempre più vuoto, e i segni lasciati da tutte queste vicende sono evidenti. Soprattutto, lo spazio di via Parma 31 è un luminoso luogo dell’anima, altero e inafferrabile, sempre cangiante, durante le stagioni e ad ogni ora del giorno.
Ha avuto una vita lunga e intensa da quando l’ho affittato e reso vivibile (era del tutto vuoto quando lo presi in affitto, mancavano perfino la luce elettrica e l’acqua, nonché il bagno e una linea telefonica) e sono passati, tutto sommato velocemente, molti lustri. La sua storia come sede di e/static è durata poco meno di 20 anni, e come tutte le storie, belle o brutte, anche questa ora volge alla fine. Un capitolo si chiude, un altro sicuramente si aprirà, si sta già aprendo, si finisce soprattutto per lasciare spazio ed energie a ciò che sta per cominciare. È una storia senza fine.
Lo lascerò il 30 giugno prossimo, lo lascerò al suo destino, non so cosa succederà lì in futuro, ma so che sarà senza di me, e senza e/static. Lì sono successe veramente tante cose in tutti questi anni, in tanti ci abbiamo lavorato, faticando e sognando. Ora, a partire dal 1° luglio 2018, rimarrà soltanto come un ricordo per tutti noi.
Il 21 giugno, dal pomeriggio fino a quando sarà calato il sole – molto tardi, perché sarà il giorno del solstizio d’estate – lo spazio di via Parma 31, al 1° piano del fabbricato all’interno del cortile, rimarrà ancora aperto a chi vorrà venire per una visita. Ci sarò io, forse qualche amico, sicuramente le opere di Giovanni, di Rolf e di Terry, anche se a prima vista potrà essere difficile individuarle. Sono molto discrete, come i loro autori, e lì dentro ci staranno bene.

                                                                         Carlo Fossati, giugno 2018 (dal comunicato stampa)

 

                                                                                        @ Alessandro Quaranta e e/static, 2012-2018

 

                                                                  (senza fine)
 

Mi son chiesto se dovevo trovare un titolo a questo breve testo, poi rileggendo l'essenziale annuncio della mostra ho capito che c'era già.
Chi mi conosce sa che lavoro dodici ore al giorno e non vado mai da nessuna parte. Credo sia una forma di pigrizia attiva. Devo aggiungere che con il mio lavoro vedo sovente le mostre prima. Dico questo per spiegare che non era assolutamente probabile che uscendo di corsa dal lavoro mi dirigessi in via Parma.
Ci saranno stati più di quaranta gradi in quello stanzone bianco bianco, dove tutto era quasi impercettibile. Per un attimo l' ”effetto madeleine”, il calore, un odore forse, mi hanno proiettato in un passato davvero lontano. Non so come, mi son ritrovato a parlare di traduzione con due persone lì presenti, e anche le loro parole, gente del mestiere, hanno influenzato credo ciò che sto per raccontare.
Il mattino dopo ho chiamato Carlo Fossati per ringraziarlo, non per forma, era un vero ringraziamento al rigore con cui aveva saputo inserire solo l'indispensabile. Gli ho riferito lo stupore di aver riconosciuto riferimenti a studi da me fatti svogliatamente più di sessanta anni fa.
Non dirò nulla che non sia già stato scritto.

Ho avuto una strana infanzia dove la scrittura assumeva un ruolo involontariamente ipertrofico. Ho iniziato scuola al Cairo imparando ovviamente l'alfabeto arabo. I caratteri latini erano indispensabili per molte lingue europee. Venendo da famiglia sefardita non imparare l'ebraico era impensabile. Mia madre era greca e quindi non le si poteva certo fare torto escludendo il suo alfabeto. In Egitto allora, si insegnava a scrivere musica in chiave di violino dalla prima elementare. Evidentemente i bambini possono più cose di quelle normalmente richieste.
Col tempo, approfittando del vantaggio, sempre per obbligo, ma non mi fu gravoso, anzi, mi imposero, pochi anni dopo, il gioco straordinario dell'analisi del testo biblico.
Per iniziare bene, parrà banale, si cominciava dall'inizio e che inizio.
La prima lettera di Genesi è la Beth. Intorno a questa lettera e al perché tutto inizi da lì, aprite un computer e sarete sommersi. Ma che c'entra con la mostra? Bene, quella lettera è il primo tentativo di rappresentare l'indicibile, l'inafferrabile, l'infinito.
In questa mostra i tre lavori a me paiono tentare di afferrare, come loro compito inderogabile, tutto questo.
La Beth non è la prima lettera dell'alfabeto, inoltre è un prefisso con un significato simile, ma più ampio, della preposizione “in”. Unito alle altre, forma la famosa parola Bereshit. Rosh significa testa. Quindi potremmo tradurre con “in capo”, “in testa”, “in principio”. Già così s'è perso un po' del significato. “In capo” è un po' come dire che l'infinito non ha un inizio, è già in testa, nel capo, nel pensiero. Su questo c'è chi ha detto e scritto nel tempo milioni di volte più di quanto io possa balbettare. Vorrei far notare, che non è precisato “in testa” a chi, Dio? chi scrive? chi legge? E poi, se di tempo si tratta, quando? In principio di cosa? Dopo cosa? Vorrei aggiungere che il verbo essere non si usa in ebraico, e questo la dice lunga sull'instabilità del tempo. Se la “relatività” suona come recente, l'incostanza del tempo relativa alla vita, al prima e al dopo, questa è un ostacolo su cui si inciampa ad ogni passo biblico.
Inoltre la lettera Beth ha una forma. In una scrittura da destra a sinistra tutto si rovescia, il prima è a destra e il dopo a sinistra. Saranno convenzioni, ma che il nord sia sopra e il sud sotto, l'ho sempre trovato un sopruso. Ma non divaghiamo, la Beth è chiusa su tre lati e aperta in avanti, quindi a sinistra. Suggerisce un punto di vista straordinariamente umano, un infinito in cui ci si occupa di immaginare l'infinito del dopo, il piacere di partire da uno zero per rivolgerci ad un infinito dopo, ci dimezza il problema.
Tutto questo mi pare straordinariamente afferrato per un prezioso attimo nei lavori di Giovanni Anselmo, Terry Fox, Rolf Julius, “posti” con rigore da Carlo Fossati.
Il titolo “senza fine” somiglia alla Beth, ci si può sbizzarrire sull'ambiguità della parola “fine”, se poi le uniamo il “senza” moltiplichiamo i significati, ma presuppone come nella beth di Bereshit, tre lati a cui pare inutile rivolgerci, spingendoci in una sola direzione già di per sé vertiginosa.

                                                                       Silvio Zamorani         Torino, domenica 24 giugno, 2018

 

 

 

                                                                                                           ph: Pietro Palladino, 2018

 

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